domenica 19 luglio 2015

Gaizka Toquero, la Locomotiva biancorossa.



I soprannomi contano molto, soprattutto nel calcio. Se giochi in uno dei club più antichi e prestigiosi del mondo e i suoi tifosi, da sempre molto esigenti, ti chiamano Lehendakari (il titolo di governatore di Euskadi) ciò significa una cosa sola: che te lo sei meritato.
La carriera di Gaizka Toquero è allo stesso tempo particolare e paradigmatica. La filosofia unica dell'Athletic, oltre a valorizzare i giovani della cantera e un intero movimento calcistico, talvolta dà delle opportunità impensate a giocatori che altrimenti avrebbero visto la Primera solo col binocolo; basta un momento di magra in un determinato ruolo e giocoforza elementi di livello medio-basso si trovano catapultati in prima squadra solo perché si trovano al posto giusto nel momento giusto. Ciò comunque non implica il successo: un conto è procurarsi un'occasione, un altro riuscire a sfruttarla appieno. Esistono i Casas (le sue 64 presenze in Liga restano tuttora inspiegabili) e i Toquero: non proprio la stessa storia.
Gaizka Toquero arriva al grande calcio piuttosto tardi, a 24 anni. Nato a Vitoria, cresce nell'Ariznabarra, squadra minore della sua città, e passa per le giovanili di Real Sociedad e Alavés senza riuscire a sfondare. Nel 2006 gioca in Segunda B nel Lemona, senza segnare alcun gol. L'anno successivo passa al Sestao River, storico club bizkaino, e lì cambia per sempre la sua vita. Nel corso di un triangolare precampionato con l'Athletic viene infatti notato da Joaquin Caparros, allora tecnico dei Leoni, un fedelissimo del 4-4-2 al quale non concede alcuna deroga; tanto per capirsi, con lui in panchina un fantasista delizioso come Yeste deve dividersi tra il ruolo di regista basso e quello di esterno sinistro. A Caparros serve come il pane una seconda punta di movimento da affiancare a Llorente, ormai inamovibile come centravanti. Dopo la cessione di Aduriz, l'andaluso ha ben poche frecce al suo arco: Ion Vélez è oggettivamente inadatto alla Primera, Iñigo Vélez è una controfigura del riojano, mentre Joseba Garmendia, veloce e dalla buona tecnica, è incostante e più centrocampista che punta. Jokin, com'è stato ribattezzato a Bilbao, osserva con grande attenzione quel ragazzo quasi calvo che corre come un dannato e lotta su ogni pallone. I piedi sono quel che sono, tuttavia di testa sa farsi rispettare e col suo movimento continuo è una spina nel fianco per i due centrali, che se lo ritrovano fra i piedi ogni volta che provano a impostare. A fine partita il mister dice ai suoi collaboratori che è un peccato che quel giocatore così interessante sia troppo vecchio, ma viene subito corretto: non ingannino la pelata e il viso scavato da uomo vissuto, l'attaccante ha 23 anni. L'Athletic lo preleva a fine campionato e lo gira in prestito all'Eibar, in Segunda, per testarlo in un campionato più probante. Nella prima parte della stagione le sue prestazioni con gli armeros sono buone, dunque i biancorossi decidono di ripescarlo nel mercato di gennaio visto che Caparros è ancora alla ricerca del delantero da affiancare a Llorente. L'unico dorsal disponibile al momento del suo acquisto è il 2, numero che non abbandonerà più e che ben rappresenta la peculiarità del personaggio. L'impatto con la nuova realtà è positivo e fin dalle prime uscite Gaizka si fa apprezzare dal pubblico del San Mamés. Gli bastano due mesi consacrarsi mito biancorosso: schierato titolare il 4 marzo nella semifinale di ritorno di Copa del Rey con il Sevilla, che aveva vinto 2-1 l'andata, segna il gol del definitivo 3-0 che affossa gli andalusi (prima marcatura in biancorosso). La sua esultanza, occhi spiritati e increduli e braccio destro che mima il famoso "you can't see me" di John Cena, diventa leggendaria. Ma è nella finale con il Barcellona del 13 maggio che Gaizka fa sognare un intero popolo: il suo gol di testa su corner di Yeste regala infatti l'1-0 all'Athletic, campione virtuale per quasi un tempo prima del gol di Yaya Touré e del tracollo nella ripresa.
Nonostante la sconfitta il numero 2 si assicura un posto privilegiato nel cuore degli athleticzales, e la sua espressione che sembra domandare "ma davvero sono stato io a segnare?" dopo il gol al Sevilla resta una delle immagini iconiche dell'Athletic nel nuovo millennio. Storicamente i tifosi bilbaini apprezzano l'impegno e il sacrificio per la maglia più del talento fine a sé stesso o comunque non accompagnato dalla sufficiente garra; logico dunque che quell'attaccante sgraziato, dotato di una tecnica appena sufficiente per la Segunda, diventi in pochissimo tempo un idolo della Catedral molto più di Llorente, da sempre stigmatizzato per una certa indolenza. Toquero è il primo a sapere di non possedere minimamente i mezzi per affrontare i difensori della Liga, ed è questa la sua forza. Con un'umiltà rara e a tratti commovente non cerca giocate per lui impossibili e si concentra su quelle due o tre cose che gli riescono, cercando di farle al meglio e di dare tutto per la zurigorri. Le sue corse talvolta insensate contro difensori lontani 15 metri non sono uno spreco di energia o un modo ruffiano per strappare un applauso, anche se spesso lo sembrano; sono il suo modo di contribuire, di dire ai compagni, agli avversari e al pubblico che anche lui c'è, e soprattutto di meritarsi uno stipendio che spesso giocatori col doppio del suo talento si sognano, imprigionati dal caso e dalla crudeltà del sistema calcistico in serie minori e squadre senza soldi.
L'anno successivo si conferma partner ideale di Llorente, col quale in effetti forma una coppia completa: uno corre e l'altro segna, uno si sacrifica e l'altro finalizza il lavoro della squadra. Alcuni arditi osservatori, forse spinti dal vago senso di ingiustizia che si prova nel vedere i due attaccanti giocare insieme (anche a causa dell'evidente disparità a livello di aspetto fisico), si spingono a sostenere che il riojano segni solo grazie alla presenza di Toquero... un assunto giusto un po' azzardato. L'arrivo di Bielsa al timone della squadra segna l'inizio della parabola discendente di Gaiza "Revolución" (così chiamato da José Iraragorri per la sua capacità di entrare e dare tutto per cambiare la partita). Il gioco elementare di Caparros, fatto di lanci lunghi, sponde del centravanti e corse sulle seconde palle, si adattava alla perfezione ai suoi scarsi mezzi tecnici, mentre il 4-3-3 del Loco, che prevede un solo attaccante in grado di dialogare con i compagni, evidentemente non è fatto per lui. Nel primo anno vissuto da riserva di Llorente la sua partecipazione è comunque alta, con 35 presenze e 4 gol, ma l'acquisto di Aduriz nel mercato estivo del 2012 suona come una condanna definitiva. Toquero sparisce dalle rotazioni e viene spesso impiegato solo negli ultimissimi minuti, tranne qualche partita isolata in cui viene impiegato sulla destra (anche con buoni risultati, visto che sa crossare efficacemente in corsa). Le cose non cambiano con Valverde, anzi. Inizialmente Txingurri utilizza il numero 2 come revulsivo, ovvero inserendolo a partita in corso (e spesso quando l'Athletic deve rimontare) sperando in una scossa; col passare del tempo, però, lo spazio si riduce fino a scomparire del tutto. La società prova a cederlo in prestito, tuttavia Gaizka rifiuta il trasferimento e preferisce restare a Bilbao a giocarsi le sue carte. I 46 minuti totali giocati nella stagione 2014/15 parlano da soli. Toquero capisce che non può continuare così, accetta la rescissione consensuale e si accasa all'Alavés, da dove era partito tanti anni prima.
La sua conferenza stampa di addio è stata assolutamente degna di lui: nessuna domanda, solo un breve testo letto prima in euskera e quindi in castigliano, un saluto e l'uscita dalla sala stampa. Toquero ha ringraziato tutti, dai compagni ai tifosi, e le sue non sono sembrate parole di circostanza. L'uomo che si presentò ai primi allenamenti a bordo di una Golf scassata ha detto addio per sempre alla squadra che gli ha cambiato la vita. Tutti, Valverde in primis, hanno sottolineato la sua professionalità e il fatto che la sua assenza nello spogliatoio si farà sentire. Personalmente non nego di aver imprecato spesso nel vederlo sfiancarsi in scatti inutili per poi sbagliare a causa della foga o della mancanza di lucidità, ma ciò non toglie che anch'io abbia apprezzato il suo compromiso totale con la maglia e la sua abnegazione quasi ascetica; insomma, mancherà anche a me.
A poche persone toccano in sorte occasioni come quella che gli capitò sette anni fa, quando giocava nei campi della terza divisione con una maglia neroverde addosso; ma ancora meno sono colore che riescono a non sprecare opportunità del genere. Nel suo caso, dove non è arrivato il talento hanno potuto l'impegno quotidiano e quello spirito combattivo che lo ha sempre fatto andare su ogni pallone, anche il più sgangherato e irraggiungibile. Una metafora che non ha bisogno di essere esplicitata.
Gaizka Toquero è stato il nostro Pietro Rigosi di gucciniana memoria: una locomotiva lanciata a bomba contro l'ingiustizia, i palestrati con tatuaggio tamarro e il calcio dei padroni. Agur, Lehendakari.

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